Durante l’epoca di ricostruzione
la tecnologia determina tutto.
Stalin
Inevitabilmente quando pensiamo al lavoro di Serafino Maiorano viene in mente la linea di demarcazione che separa il mondo artificiale, che costituisce la Città come concetto dalla mente umana e che con grande fatica viene costruito pietra su pietra con le proprie mani, dall’universo circostante della natura caotica quanto armoniosa che sembra vegliare però senza alcuna minaccia imminente piuttosto che con un’indifferenza mischiata a una benevolenza remota e ambigua sulle fragili faccende dell’uomo attraverso la frontiera tra il mortale e l’immortale.
Ci sono coloro che sostengono che la scuola di pensiero per cui hanno scelto l’ambiziosa bandiera del post-modernismo, che dalla lontana epoca di fine anni settanta dominava il discorso teoretico per oltre vent’anni concludendosi di colpo quel giorno fatale del 11 settembre 2001 quando un “construct” avanzato di prestigio considerevole della civitas occidentale fu letteralmente portato giù a terra. Mentre non erano in pochi a parlare della “fine della storia” questa sveglia annunciava in toni alti che la guerra delle ideologie non era ancora arrivata alla sua fine con la caduta del Muro di Berlino e il collasso dell’Unione Sovietica. Il concetto bolscevico del Urbs e la formula mercantile del capitalismo per l’organizzazione della vita umana all’improvviso sembravano superflui, un mero ricordo ridondante del travaglio del parto di un nuovo ordine mondiale ora, senza avvertimento, ributtato in disordine.
Serafino Maiorano passeggia come testimone oculare volontario in mezzo a un nuovo “construct” sociale, virtuale in termini della propria fragilità per quanto riguarda la sua infrastruttura comunicativa ed effimera quando si tratta del “hardware” architettonico della sua sostanza improvvisata di plastica, acciaio e vetro che costruisce il contesto civico ed extraurbano della nostra nuova quotidianità. In questo modo Serafino Maiorano, come se prendesse un venerabile indumento dall’ armadio ancestrale, esce con audacia nella luce del giorno con il mantello del flâneur sulle sue spalle.
Il flâneur, nonostante l’immediata connotazione della Parigi di Charles Beaudelaire, Théophile Gautier, Gérard de Neval e Honoré de Balzac – quella fratellanza tra aspiranti cattivi ragazzi che usavano unirsi all’isola di Saint Louis sotto il nome del “Club des hachichiens” – che si possono infatti identificare duemila anni prima nella Roma di Cesare Augusto nella figura di Orazio, Ovidio e Properzio. Addirittura, i satiri di Orazio offrono ampia prova che, proprio come nella Parigi di Beaudelaire e compagnia, una componente significativa del processo poetico che tempestava intorno alla persona di Mecenate era la pseudo decadente ceremonia del flâneur, quel dandy la cui unica occupazione era (come proclamava molto tempo dopo Charles Algernon Swinburne) solo di passeggiare attraverso la città con nessun altro scopo apparente che il pieno esercizio del proprio otium.
«Il poeta», proponeva Swinburne, «richiede le migliori ore della giornata». In questo senso il vero sogno del marxismo era realizzato in modo più profondo non nella Mosca materialista, ma entro le mura imperiali della Roma antica.
Si può dire che la Roma odierna costituisce il principale proscenio delle investigazioni artistiche di Serafino Maiorano. Mentre si può ancora oggi sentire un lontano eco della convivialità della scuola di Piazza del Popolo, dove Mario Schifano, Tano Festa, Pino Pascali, Jannis Kounellis e tanti altri passavano le giornate sulla terrazza del bar Rosati in piena rivoluzione, mentre formulavano un nuovo otium artistico che sarebbe stato ricostruito sulle rovine che rimanevano dopo la caduta dell’estetica fascista e che sarebbe stato animato dal trionfo del consumismo americano, la scena urbana che colpisce, spesso in modo violento, lo sguardo sensibile di Serafino Maiorano, gli offre situazioni completamente nuove che lo spingono a rispondere attraverso l’improvvisazione di reinterpretazioni visive sul piano dell’estetica pura, verso la formalizzazione di soluzioni di procedimenti tecnici che resistono alla concorrenza del laico, cioè, la saturazione visiva commercialmente consumistica della realtà urbana, una realtà messa in scena sopra lo “schermo” dell’accumulazione millenaria che costruisce il “middenheap” (un sito archeologico vivente ed omnipresente) della Roma contemporanea.
La deambulazione ci eleva dalle belve e costruisce il meccanismo fondamentale che anima la narrazione epica di Gilgamesh e l’Esodo fino alla gita scolastica dell’Inferno di Dante e addirittura le peregrinazioni senza fine dei vagabondi di Samuel Beckett che evacuano le circostanze immediate del significato dentro, o almeno verso, una dimensione ulteriore, in quel “terrain vague” che sta tra l’eterno e l’attuale.
L’impresa pittorica di Serafino Maiorano dimostra per propria natura l’importanza del camminare attraverso la realtà urbana e sul primo livello d’interpretazione questo lo mette in compagnia con i pionieri della fotografia da Steichen e Stieglitz a Henri Cartier-Bresson e anche più recentemente quella di maestri come Ralph Gibson stesso. Però, l’uso del mezzo di riproduzione fotografica è, nel caso di Serafino Maiorano, nient’altro che un punto di partenza, un salto volontario o l’impeto propulsivo verso il suo vero scopo, che si può definire come niente di meno di una soluzione alle contraddizioni inerenti alla praxis pittorica odierna.
A Serafino Maiorano, come ai più coscienti della sua generazione, è stato imposto un pesante obbligo: trovare una risposta legittima non soltanto all’allucinante progresso della tecnica di rappresentazione digitale, ma anche un modo non soltanto di resistere, ma di superare e addirittura proporre un loro valido contributo al già pesantissimo fardello di oltre cinquant’anni di rivoluzioni avangardistiche che si sono superate una dopo l’altra con strepitosa regolarità, un’innovazione, rimpiazzando l’altra nello spazio di pochi anni:
L’arte Pop nelle persone di Jasper Johns, Robert Rauschenberg, Andy Warhol, subito rimpiazzata dal rigore neocostruttivista del Minimalismo con protagonisti che vanno dal pioniere Ellsworth Kelley a Donald Judd a Brice Marden non senza citare l’ilarità esigente di Blinky Palermo, rapidamente sorpassati dal diluvio di audacità foto-linguistica dalle ultra-cerebrali tendenze di Concept Art come veniva proposta da Joseph Kosuth, Lawrence Weiner o On Kawara e tanti altri, solo per fare collisione diretta con la Land Art e Body Art di Michael Heizer, Robert Smithson, Dennis Oppenheim, Vito Acconci, lasciando da parte per ora l’impatto del Fluxus o di Guy Debord.
Subito dopo seguiva in rapida successione l’arrivo della Narrative Art basata sulla fotografia, lanciata dal troppo spesso dimenticato fondatore Peter Hutchinson assieme ad un gruppo di artisti di grande impatto, Bill Beckley, Mac Adams, James Collins, raccolti a New York nella John Gibson Gallery di Soho. Questo gruppo che proponeva la fotografia come quadro è la vera scuola da cui escono artisti come Cindy Sherman, Barbara Kruger e Richard Prince.
In mezzo a questa alta marea d’innovazioni stava l’inevitabile figura eroica, la cui arte era legata alla missione di guarigione omeopatica dell’uomo e la decontaminazione del suo paesaggio sia spirituale che geografico: la presenza shamanistica di Joseph Beuys. Oggi, quando parliamo dell’œuvre di Serafino Maiorano, dobbiamo anche citare il rapporto che lo lega alla scuola di Bernd e Hilla Becher e i loro discepoli Candida Höfer, Andreas Gursky e Thomas Struth.
Secondo Jean Cocteau dietro ogni opera d’arte ci sono le circostanze della vita quotidiana: sigarette, una tazza di zuppa, tavoli, sedie. Coloro che entrano nello studio di Serafino Maiorano, vicino al quartiere multi-etnico di Piazza Vittorio, passeranno da un cortile metafisico per trovarsi in un vasto laboratorio della creatività dove si presentano all’occhio non soltanto le sue ultime opere, ma anche dei quadri collaborativi, frutto delle sue amicizie con artisti come Mario Schifano e Vettor Pisani. Come ogni artista, quando Serafino Maiorano parla delle sue origini creative dell’infanzia, il punto di partenza è difficile da determinare anche per l’artista stesso.
Serafino Maiorano confessa la sua indifferenza verso il disegnare e l’arte in generale fino all’età di quattordici anni, quando all’improvviso un pomeriggio dopo scuola esprimeva ad un compagno , il cui padre aveva una ferramenta, il desiderio di fare qualcosa di artistico. Il risultato di questo gioco adalescenziale furono delle pitture astratte in forma di smalto su metallo che, nelle parole dell’artista stesso, costituivano per qualche mese il loro divertimento spensierato.
Poco dopo questa attività si trasferisce in un grande attico della casa familiare, finché la madre, preoccupata del disordine implicito nella nuova indole artistica del figlio, ne esilia l’attività in una piccola camera fuori casa. Ben presto il disegnare, finalmente, diventa un importante sfogo legato al desiderio del giovane Serafino Maiorano di dedicarsi agli studi d’architettura all’università. Alla fine si decide per la facoltà di agraria, seguendo le orme della famiglia, imprenditori agricoli e proprietari terrieri. Qui forse si manifesta la rottura, la biforcazione di ciò che l’artista stesso chiama una doppia personalità: da una parte l’aspetto urbano e architettonico e dall’altra il suo profondo legame al mondo agricolo che risale al tempo delle Georgiche di Virgilio.
L’impulso urbano seguiva in un certo senso l’esempio del futurismo e delle avanguardie che lo elaboravano, mentre il collegamento alla natura e la tradizione contadina sembra rappresentare un altro legame allo sviluppo di Joseph Beuys dalle scienze naturali all’arte oppure l’enfasi con cui Gianfranco Baruchello continua ancora oggi a inserire il mondo rurale nella sua pratica artistica. Infatti, il clima rigoroso che non ignora il mondo circostante dal suo contesto socio-politico, ma che lo respira con perspicace ironia proprio come nel lavoro di Baruchello stesso, viene costantemente evocato da Serafino Maiorano nell’urgenza in ogni suo impegno visivo.
Il nexus tra l’attualità che ci martella quotidianamente a livello personale e globale e il sogno persistente delle vecchie formulazioni utopistiche che testardamente rifiutano di uscire sia dalla scena pubblica che dalla mente dell’artista si trova con insistenza in ogni opera di Serafino Maiorano. La fotografia possiede un legame stretto con l’architettura, e dall’ inizio del suo percorso creativo è proprio quella sua prima aspirazione di studiare architettura che torna con insistenza nel suo impegno pittorico inevitabile. In questo modo il desiderio di dedicarsi all’aspetto non soltanto estetico, ma anche socio-urbanistico, tramite l’architettura s’incontra rinato in forma diversa. Però la bipolarità tra terra e città, tra l’indimenticabile ricordo delle sue origini vicine alla natura e la coscienza ad occhi aperti delle vere circostanze della vita attuale, ha portato l’artista verso un equilibrio senza nessun compromesso.
L’aspetto architettonico si è rivelato ancora, di recente, in forma di scultura che accompagna l’opera pittorica in modo duchampiano costringendo lo spettatore ad avere un salto d’occhio dal “picture plane” alla tridimensionalità. Questo itinerario era già ben segnalato nelle ambizioni del giovane Serafino Maiorano. Con una solida formazione scientifica dell’agricoltura Serafino Maiorano divideva il suo tempo tra la supervisione della tenuta familiare e i suoi studi all’Accademia di Belle Arti a Catanzaro, mentre dipingeva scene di mitologie notturne di carattere Junghiano forse ispirate alle sue escursioni solitarie di caccia al cinghiale sotto la luce della luna.
Queste insolite esperienze sembrano armonizzarsi perfettamente con la sua produzione pittorica durante quest’epoca, quando si dedicava a temi quasi pagani di metamorfosi delle figure non solo di animali, ma anche di donne accompagnate dall’onnipresente figura dell’eroe in un contesto che ricorda la posa di Mitras stesso, la divinità tardo-antica che uccide il toro e che sembra prefigurare il cristianesimo romano.
A metà strada degli anni ottanta l’artista si trasferisce nel quartiere romano di San Lorenzo, nell’ormai famoso Pastificio Cerere, facendo amicizia con i suoi confratelli, come Bruno Ceccobelli, che lavorano in questa fabbrica di nuova pittura. Allontanandosi dalla direzione di temi mitologici, ancora una volta ricorreva ad una nuova materialità che includeva lavorare con la cera. L’artista si rivolge alla fabbrica di vetro sotto il suo studio dove fa fare una serie di contenitori sferici che riempie con il grano, in diretta referenza al suo legame con la terra e forse, trovandosi in un ambiente intensivamente urbano, ispirandosi ad una nostalgia per la natura.
Anche qui però l’artista continua a considerarsi un pittore. Alla base del suo lavoro c’era forza, movimento, energia, come rappresentato nelle capsule di grano. Interessante notare che i grandi salti stilistici nell’ecologia dell’arte di Serafino Maiorano occorrono, sempre secondo l’artista, durante le sue lunghe villeggiature estive immerse nell’ambiente della sua nativa Calabria.
Una ripercussione di questo impulso ecologico, a parte il contenitore di grano, è stata la nuova attività di fotografare la vita di fattoria e gli animali che ci vivono. Questa nuova direzione, ci chiediamo, era un diretto risultato del senso di nostalgia per le sue origini nella vita di città? Se questo è il caso, ricorda la poetica circolare dell’ antico romano Orazio, sempre a casa di città però sempre sognando l’Arcadia del rifugio rurale.
Dev’essere ormai innegabile a chiunque abbia seguito l’evoluzione anno per anno della praxis post-avanguardista che la convergenza di pittura e fotografia rappresenta un fatto compiuto. Il matrimonio dell’immagine fotograficamente ready-made con la soggettività manuale della gestualità pittorica costruisce il nuovo vocabolario della nuova accademia globale post-post-moderna.
Per Serafino Maiorano questo significa una focalizzazione del suo repertorio in un unico teatro di energie, proprio come ha fatto Volta con la sua scoperta delle pile elettriche. Per il pittore calabrese, il risultato è stato un balletto senza filo narrativo, un cinema statico senza copione, il ritorno eterno dell’andata e ritorno tra città e campagna, tra riproduzione fotografica e pittura gestuale. Trovandosi a proprio agio nella sua casa di specchi, l’ordine del giorno è la proiezione all’esterno del suo sguardo da pittore. Il paesaggio non vede se stesso, nemmeno la luna “sorride giù” sui lavori dell’uomo, ma invece rimane ceca al pianeta che orbita. Quando ancora l’uomo sapeva soltanto guardare, era l’artista il primo ad insegnarci a vedere.
L’occhio da pittore di Serafino Maiorano lavora in sintonia con la lente ottica che prima cattura il materiale della sua ricerca mentre naviga nel labirinto della nostra realtà consumista, ben dopo ormai che i “passages” di Walter Benjamin sono stati ridotti al regno del mero folklore. Ciò che colpisce di più però nella sua capacità di un’astrazione visiva che dimostra una velocità di sintesi di segni complessi e spesso opachi che vengono valorizzati tecnologicamente dall’artista per costituire una discreta infinità. Serafino Maiorano sembrerebbe non dare niente per scontato, o di accettare, a prima vista, alcun fenomeno che incontra ad ogni angolo del suo percorso. È da ricordare che Andy Warhol non stava completamente scherzando quando diceva, «Voglio vivere nell’ aeroporto». In bilico tra l’immagine e la sua assenza il flâneur Serafino Maiorano segue la sua visione nel ciclo delle stagioni della natura nello stesso tempo che investiga la banalità della scena urbana in flusso continuo, in ogni momento dividendo l’allucinatorio “autre” dello sguardo di Arthur Rimbaud, e l’incessante richiamo di Noam Chomsky: di venire faccia a faccia con “lo stupore del mondo”.
Alan Jones
Milano 2010
trad. da Friederike Schaefer