Quando una fotografia svapora nella pittura, quando le dissolvenze confondono e sovrappongono i confini disciplinari, quando i linguaggi abbandonano la propria identità per indossare nuove e variopinte maschere, tutto diviene più difficile e si confonde, e si mescola, si intreccia e si perde.
In tal modo, il terreno narrativo si rende più incerto, paludoso, infido e il procedere interpretativo richiede nuovi strumenti e nuove accortezze.
Si delinea una generale incertezza, uno sgomento che può sfociare in ansia, paura, insicurezza, una fragilità che però può anche facilmente mutare in sottile curiosità, in oscura attrazione, in eccitante ricerca.
Da quando, nella seconda metà dell’Ottocento, i pittori parigini hanno cominciato a frequentare lo studio del fotografo Nadar, il rapporto fra pittura e fotografia è andato intensificandosi, non di rado sovrapponendosi e confondendosi.
All’inizio, la contaminazione avvenne su un piano squisitamente tecnico, grammaticale, ma ben presto questo mutò in un abbraccio sempre più avvolgente raggiungendo spesso, con Dada e Futurismo, un groviglio inestricabile di visioni ed emozioni, di lampi e di precipizi matrici.
Sono, però, soprattutto gli ultimi tre decenni che hanno segnato una più complessa ed articolata relazione fra fotografia e pittura, una relazione che ha investito sia il piano linguistico che quello narrativo, che ha invertito gli schemi formali, che ha scomposto le strutture grammaticali, che ha confuso immagini e racconti, emozioni e ricerche, tecniche e materiali.
Non vi è dubbio che fra i massimi protagonisti di questa complessa stagione artistica Gerard Richter ha recitato un ruolo fondamentale, non solo per quanto concerne gli esiti formali ma anche per alcune tracce di riflessione critica dalle quali è oggi difficile prescindere.
Innanzitutto, l’artista tedesco è, ed è sempre rimasto, un pittore, nel senso che l’impianto generale del suo linguaggio è rimasto ancorato all’ambito della pittura; ne ha certamente dilatato i confini, ne ha forse deformato gli strumenti, ma il suo lavoro si è pur sempre iscritto alla pratica pittorica.
Ciò che Richter, forse prima di altri, ha realizzato, è stato un cambiamento prospettico dell’intera sfera narrativa, ha cioè strutturato il racconto visivo invertendo, linguisticamente, i ruoli assegnati, attribuendo alla pittura quello decostruttivo e alla fotografia quello emozionale.
Così, il cromatismo materico del colore, anche quando è ridotto alla semplice assenza di luce, risulta sospeso in un’assenza, in una funzione di scavo e di sovrapposizione che costantemente deforma e annulla l’immagine, dando vita ad un racconto frammentato ed evanescente.
Allo stesso modo, il volto del ricordo si spoglia della propria rappresentatività, per affondare, con la luce di una candela o con la sagoma di una persona, nel vortice evocativo di un brivido emozionante, nel ricordo di una narrazione inafferrabile. Nello stesso orizzonte di ricerca si colloca il lavoro di Serafino Maiorano, un percorso complesso, attento e consapevole di tutte le sfumature di questo intreccio linguistico ma, soprattutto, concentrato a non lasciarsi irretire dal virtuosismo compositivo, per sostenere e proteggere la più delicata sfera concettuale.
In effetti, l’aspetto formale, che in questa tipologia di ricerca riveste sempre un ruolo determinante, in Serafino Maiorano, che pure gli dedica straordinaria attenzione, non assume mai il sopravvento sul dato concettuale, su quel elemento intellettuale che si intuisce sotto i veli di una figurazione solo evocata.
Si tratta di un clima narrativo che non di rado sfiora l’esoterismo del simbolo e la profondità dell’enigma, un’atmosfera che avvolge l’intero processo creativo, abbandonando frammenti e dettagli di un pensiero silenziosamente evocato.
Come il linguaggio accende il brivido per un percorso svolto sul bordo delle discipline, così la narrazione fluttua nella deriva di una concettualità bulimica.
Ciò emerge già nei lavori realizzati a metà degli anni Novanta dove il soggetto naturalistico, o animale, è inserito in una sussurrata struttura architettonica che, non solo distribuisce i piani prospettici, ma anche ordina la recitazione della figura e allude ad un impalpabile tracciato geometrico.
Ciò che inevitabilmente colpisce in questi lavori è la suggestione dei soggetti in relazione all’impianto narrativo: da un lato il suggerimento ad una natura arcaica, rude, primitiva, dall’altro lato, l’impaginazione geometrica in cui il rigore del tratto suggerisce la complessità del pensiero.
Come nell’esasperato contrasto che Boccioni evidenzia ne “La città che sale”, dove all’eredità contadina dipinta nel cavallo in primo piano è affidata la costruzione del futuro segnata con la città in lontananza, così queste opere di Serafino Maiorano scatenano il cortocircuito tra un’apparente insistenza naturalistica e una più sottile attrazione matematica, tra un’immagine emozionale e una percezione concettuale, tra istinto e intelletto.
Tale dinamica è sostenuta e confermata da un procedere linguistico che, non solo danza sul baratro dell’incertezza d’identità, ma accentua la sua inquietudine attraverso un cromatismo acido e corrosivo.
Il racconto si compone per spezzoni, frammenti di visione, bagliori di figure che si rincorrono e si disperdono, lo spazio scenico è ordinato secondo griglie prestabilite, piani compositivi che, come nelle ripartizioni di Mondrian, distribuiscono pesi e ruoli, determinano vuoti e concentrazioni.
Eppure, già in queste opere, e poi in modo ancora più evidente in quelle successive, nemmeno la struttura architettonica, che rappresenta una costante nelle opere di Serafino Maiorano, riesce a garantire un ordine certo, un orizzonte affidabile e sicuro entro cui svolgere la narrazione. Mano a mano che tali strutture si dispongono nello spazio appare sempre più incerta e fragile la loro disciplina, lentamente impallidisce l’ordine matematico per affiorare un più misterioso ‘ordine cabalistico’, una sorta di misteriosa figura geometrica, come quella presente nella ‘Melancolìa’ del Duerer, ripresa oggi da Kiefer, dove appare anche il tema del quadrato magico, che getta il racconto nello sconcerto e alimenta l’inquietudine dello sguardo. Si definisce così, in questa ricerca, la presenza dell’enigma, un ingorgo del pensiero che assorbe lo scorrere della visione, che arresta le immagini, che impone un lento e scrupoloso ritmo interpretativo. Sembra quasi che una sottile trasparenza metafisica si depositi sulla tela, obbligando lo sguardo a distogliersi dalla compiacenza spettacolare del racconto, per riconoscere i segreti di un’immagine più intima e appartata. Forse, proprio questo indebolimento della grammatica architettonica per una geometria più poetica, ha convinto, fra la fine degli anni Novanta e i primi anni del Duemila, Serafino Maiorano a irrobustire la composizione, concentrandosi su soggetti urbani: sui grandi cartelloni pubblicitari, sulle impalcature degli edifici, su porzioni dei palazzi. Anche in questo caso, malgrado un’imponente solidità apparente, non si tratta di soggetti certi, architetture affidabile, geometrie sicure, bensì elementi provvisori, instabili, evanescenti, la cui struttura è scenografica, posticcia, il cui corpo è molle. Eppure, sono ottime strutture di supporto allo scorrere delle immagini, giganteschi schermi televisivi, quinte teatrali per una visionarietà urbana che si fa frenetica, vorace, ossessiva. Più l’artista si concentra nella stesura di un racconto organizzato, nell’elaborazione di una grammatica data, nella definizione di un impianto formale solido, più affiora il segreto della sua anima poetica, più emerge l’esoterismo della sua inquietudine, più appare il silenzio della sua intima emozione. Certamente la consapevolezza di questa profonda dialettica, ha spinto Serafino Maiorano ad esasperare l’elemento linguistico, caricando di suggestioni i deboli elementi pittorici e raffreddando la spettacolarità dell’immagine. L’esito, che si è andato consolidando a partire dai primi anni del Duemila, è quello di una pittura insistente, puntigliosa, capace di inserirsi nelle ferite della figura, sottolinearne un’ombra, accenderne un movimento, suggerire un’espressione. Una pittura elegante, sostenuta da un sofisticato cromatismo capace di accendersi in mille bagliori o quietarsi nel susseguirsi di gradazioni. Grazie a questi minuscoli protagonisti pittorici, alla loro vitalità cromatica, alla loro discrezione, Maiorano può liberare il suo incanto, può allontanarsi dai rigori del concettualismo e ripararsi dalla insidie dell’esoterismo. Può, in definitiva, acquisire maggiore leggerezza, può, quindi, dispiegare il suo racconto con una gioia nuova, con una nuova curiosità fantastica, con un nuovo sguardo di sorpresa. A tutto ciò ha contribuito la sempre più solida capacità tecnica nell’utilizzo dell’immagine digitale, attraverso la quale Maiorano compie i propri azzardi, affronta le proprie avventure e si arrampica in una visionarietà stupefacente. Non vi è alcuna esibizione di virtuosismo tecnico e nemmeno la morbosa ricerca di immagini sconvolgenti o provocanti, non vi è insomma l’alfabeto ricorrente di troppa arte digitale contemporanea ma solo la volontà di manipolare una realtà apparente e transitoria, piegarla al proprio sguardo e liberarla dalla propria superficialità. Nascono così immagini dal forte carattere e dal grande impatto visivo, maestose architetture, eroici paesaggi urbani, inattese prospettive che si deformano e svaporano in una liquidità incontrollabile. Volte e colonne che si dilatano, ambienti ripiegati su se stessi, navate e cupole di cattedrali impossibili, scaloni e vetrate che si confondono senza tempo e senza ordine, senza memorie e senza certezze. Questa maggiore sicurezza espressiva, che ha permesso un fiorire narrativo più articolato e complesso, autorizza ora, accanto alla consueta architettura geometrica, anche la frequenza della figura umana nello spazio scenico. Presenze inevitabilmente eteree, inconsistenti, sfumate nella loro dissolvenza esistenziale, sagome umane dai contorni indefiniti, spiritualità ondivaghe, fantasmi di una quotidianità contemporanea che popolano gli ambienti e gli sguardi del nostro tempo. Figure sospese, silenziosamente metafisiche, apparizioni emaciate di un Giacometti visionario, ‘Amalasunte’ poetiche di un Licini contemporaneo. Le danze che questi personaggi compiono le loro eleganze, le loro gentili dissolvenze, generano una complice compiacenza che guida lo sguardo lungo i margini del racconto, in quella terra di nessuno ai bordi della figura dove solitamente sono relegati dettagli superflui e dove qui invece abitano sorprendenti particolari. E’ forse anche questa attenzione maniacale per il dettaglio, questa puntigliosa insistenza a rendere pulsante ogni porzione di spazio scenico, questa ricercatezza di equilibrio e simmetria visiva che guidano al nuovo approdo barocco di queste ultime opere dedicate alla reggia di Caserta. Sono opere imponenti, eroiche, dove esplode una relazione che è sempre stata presente nel lavori di Serafino Maiorano ma che ora trova la sua più completa definizione: quella tra architettura e movimento, tra figura e linea. Un rapporto contraddittorio che ha animato la ricerca dell’artista fin dai suoi esordi ma che in queste ultime opere accelera e rafforza tale contrasto, rinunciando al pretesto formale incaricato di confondere l’immagine, per liberare le oscillazioni dei lampadari e lasciar scivolare i riflessi negli specchi. Tutto ciò incorniciato da ambienti architettonici che hanno abbandonato la loro primigenia secchezza geometrica, per mostrare l’esuberanza di forme e ambienti dalla singolare vitalità e dall’incredibile vivacità.
Con questi ultimi lavori, presentati nelle sale di una delle più affascinanti ‘regge’ del mondo, Serafino Maiorano raccoglie i frutti di un percorso artistico forse sotterraneo ma certamente ricco, e si presenta ad una nuova partenza con una consapevolezza più solida nella forza emozionale, nell’intensità poetica, nel rigore intellettuale delle sue opere.