la tecnologia è un’energia nuova di cui l’arte non soltanto sfrutta la grande potenza ma di cui assume le trasformazioni. In altre parole, l’arte – soprattutto quella delle giovani generazioni – è contaminata dalla tecnologia fino al punto che è possibile parlare di un’estetica tecnologica; una nuova estetica in cui gli artisti regolano la loro ricerca sui poteri tecnologici, senza valutarne le attitudini destabilizzanti.
Le opere di Serafino Maiorano abitano il territorio di confine tra l’arte e la tecnologia, palesando costanti interferenze – non soltanto stilistiche – tra i due linguaggi. L’uso che l’artista fa del digitale, ammette il significato sostanzialmente inedito e rivoluzionario della tecnologia afferrandone il senso epocale senza, tuttavia, sottostare all’effetto ipnotico del virtuale.
Le sue immagini – grandi plottaggi su cui l’artista interviene, talvolta addirittura impercettibilmente per rafforzare una luce o esaltare un particolare – sono il risultato dei suoi vagabondaggi notturni a Milano o Roma; sono pause, interruzioni nell’incessante e sempre “spettacolare” scorrere della realtà.
Anche qui, come nel mondo tecnologico, trionfa lo “sguardo superficiale”, lontano dall’obbligo -caratteristico delle avanguardie e delle neo -avanguardie – di rivelare significati e sensi profondi che legittimino la sperimentazione; uno sguardo libero, fluido e ironico che deliberatamente – con la consapevolezza di essere artefice e non creatore o interprete – fonda il proprio linguaggio sulla pluralità espressiva.
Nondimeno, Maiorano non si lascia sedurre ma, al contrario, agisce come un hacker, sabotando dall’interno – come si evidenzia nella maggior parte dei “soggetti” fotografati: le grandi facciate virtual/pubblicitarie che coprono i palazzi in restauro – gli effetti illusionistici del mondo tecnologico, e ribadendo le qualità sovversive della pittura.
Da qualunque lato si guardino, le opere di questa mostra si pongono come un punto di riferimento (e, dunque, di riflessione) di una visione che coniuga il territorio dell’arte, in cui – dice Duchamp – non dominano né il tempo né lo spazio, con il continuo presente e lo spazio zero della tecnologia.